Cosa
vi porta qui?
Immaginiamo quello che potrebbe succedere nel primo colloquio, un momento importantissimo e decisivo per ciò che verrà dopo.
Voi bussate, io vi apro la porta e invito ad accomodarvi, ad appoggiare i pesi che portate sulle spalle e a fare un respiro profondo.
In questo primo incontro io chiederei principalmente: cosa la preoccupa? Qual è il disagio?
I motivi che vi hanno portato qui…
Probabilmente conoscete fin troppo bene i motivi che vi hanno portato qui, e le soluzioni che avete provato a mettere in atto. Potrebbe essere quel fastidio fisico per cui il dottore ha detto che dal punto di vista medico non c’è niente e vi consiglia di parlarne con qualcuno; una fase della vita particolarmente difficile, in cui è successo qualcosa che non siete riusciti a metabolizzare, o in cui vi sembra che ci sia da fare un salto, un gradino, un cambiamento, eppure rimanete bloccati, indietro, confusi. Altre volte si tratta di ansia, della paura non meglio identificata di qualcosa, che raggiunge il panico, o che implode su se stessa e vi fa precipitare in luoghi oscuri della mente. Altre volte ancora una relazione importante va male, o è andata male, e questo scatena emozioni insopportabili, pensieri fissi, comportamenti che sfuggono da ogni controllo.
Avete tutto il diritto di chiedere un consulto
Qualsiasi sia la motivazione, persino quando sembra troppo poco per stare male confronto ai “veri problemi della vita” (?) o a “chi sta peggio” (??), voglio dirvi subito che avete tutto il diritto di chiedere un consulto.
Dopotutto non si deve fare tutto da soli, altrimenti invece di comprare la frutta al supermercato dovremmo coltivare tutti un frutteto, no? E, in ogni caso, la maggior parte delle persone che chiede un consulto psicologico ha già provato e riprovato a venirne a capo da solo/con altri rimedi, che però non bastano, non hanno funzionato e per certi disturbi è inevitabile che sia così, come per una febbre che per scendere ha bisogno della giusta medicina e non -solo- di un impacco freddo sulla fronte o della buona volontà. Oserei dire che in alcuni casi avremmo, se il diritto non ci basta, il dovere di prenderci cura di noi, al pari di come faremmo con una persona cara, o con un bambino sofferente.
Le perplessità nel rivolgersi a uno psicologo…
Dall’altra parte, davanti alla possibilità di parlarne realmente con qualcuno che “lo fa di lavoro”, ci sono l’imbarazzo e il timore di sollevare il tappeto, perché di polvere sotto se n’è accumulata parecchia. E se chi ho davanti, per quanto indossi l’etichetta di “psicoterapeuta”, mi giudicasse? E se non mi capisse? E se non potesse fare nulla per me? E perché devo fare io tutta questa fatica e spesa, e non il mio capo/collega/genitore? Non sarebbe forse meglio fare finta di niente e andare avanti così finché riesco?
Mi è capitato di notare queste perplessità nelle persone che ho incontrato, e per alcune non è stato possibile -in quel frangente- andare oltre. Il consulto si è chiuso lì.
Per tutti gli altri invece si prosegue con la seconda domanda fondamentale: che cosa vorrebbe? E si comincia, man mano, a percorrere insieme le vie della mente.
Far entrare un professionista nel proprio mondo interiore privato può essere emotivamente faticoso. In fin dei conti, anche spogliarsi davanti al dottore lo è, ma ci si è più abituati o c’è un’urgenza che impone di non evitarlo. Esiste tutto un sistema di difese interne, fatto di paure e di autoinganni, che tende a trattenere gli esseri umani all’interno della propria coerenza e ripetizione di schemi. In parole povere, mediamente si preferisce mantenere un problema invece di avventurarsi verso l’ignoto di un cambiamento, anche se potenzialmente potrebbe essere l’unico modo per ottenere risultati migliori nel lungo periodo. Quello che all’inizio può costare un po’ di coraggio e di investimento, può poi ripagare nei modi in cui le evidenze scientifiche mostrano ormai da anni (L’efficacia dei trattamenti psicologici: alcune osservazioni, Psicoterapia: efficacia dei trattamenti e valutazione degli esiti). Oltre a ciò, stiamo ancora smaltendo l’eredità di una cultura stigmatizzante e di una società della performance per cui per cui chi si ferma a guardarsi dentro o è un pazzo o impazzirà (potrei dissentire e ribattere dicendo che forse è proprio chi non lo fa mai a prendere qualche cantonata?).
Un percorso, una strada
Tuttavia, per quanto lentamente, la cultura sta cambiando e negli ultimi anni è diventato più comune fare un percorso psicologico. Le resistenze mentali delle persone cambiano un po’ meno, o quasi per niente (il cervello è infatti lo stesso di centinaia di anni fa!), ma queste ultime possono essere accolte con delicatezza e pazienza in una terapia per andare insieme, a piccoli passi, a vedere cosa si nasconde oltre. Spesso, oltre a queste nebbie e muraglie legate a vicissitudini spiacevoli di cui si è fatto esperienza, c’è un rigoglioso campo di qualità, capacità, desideri di esplorazione, crescita, cooperazione e autorealizzazione in ciascuno di noi.
La psicoterapia può diventare la strada per raggiungerlo, riappropriarsene e non farselo sfuggire mai più.
Posso dirvi con molta franchezza che in 5 anni di lavoro più altri di tirocinio, non ho mai avuto disconferma di ciò. Anche la persona più afflitta e disillusa che ho incontrato aveva dentro una fonte inesauribile di vitalità e attitudini da riscoprire, ma prima di poterle utilizzare aveva bisogno di elaborare, accettare, e poi di vederle, di crederci e di avere strumenti “concreti” per poterle mettere in pratica.